Il contatto con gli animali ci aiuta a riscoprire e vivere la nostra emotività, allenta le tensioni fisiche e psichiche rivelandosi utile anche nella lotta contro l’ansia e la depressione: lo sanno bene i sostenitori della pet therapy, il metodo basato sull’interazione uomo-animale sempre più diffuso in tutto il mondo.
Per pazienti con problemi di carattere fisico, cognitivo o psichico, e nella riabilitazione di bambini o anziani, gli animali trasmettono serenità e senso di rilassatezza. Così, non solo nei centri specializzati ma anche nei reparti degli ospedali la pet therapy si fa strada e coinvolge animali domestici come cani e gatti, ma anche cavalli, asini, conigli e delfini.
Il successo di questa terapia (formulata per la prima volta da Boris Levinson negli anni ’60) spinge a porsi il problema di come regolamentare la materia, stilando dei protocolli basati su un approccio di carattere scientifico. A questo proposito, in un convegno recentemente tenutosi all’Expo di Milano sono state presentate le Linee guida nazionali in tema di pet therapy, un testo importante, che fa dell’Italia il primo paese al mondo ad aver fissato una normativa di riferimento.
Fra gli aspetti presi in esame nelle Linee guida, ci si sofferma in particolare sulle caratteristiche che devono avere le strutture dove praticare la pet theray, e sul tipo di formazione richiesta agli operatori, dai veterinari al personale sanitario.
Ma al centro di tutto, com’è giusto che sia, ci sono gli animali: per loro sono fissati dei precisi requisiti sanitari e comportamentali e si rimarca l’importanza di tutelarne il benessere facendo ricorso a indicatori di stress. Ovviamente gli animali coinvolti nella pet therapy vanno addestrati, ma l’addestramento non dev’essere coercitivo, né minare la loro salute.
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