Quando sono rimasta incinta ho ripetuto a lungo, come fossi un disco rotto, che a prescindere dalla presenza o meno di un padre (che, per la cronaca, era felicissimo di esserci) io me la sarei cavata da sola. Che il figlio era comunque una responsabilità mia e, nel bene o nel male, me la sarei cavata. Credo che questo discorso derivasse da un mio carattere testardo e orgoglioso e dalla confusione generata da una gravidanza inattesa.
Non sono mai stata una grande fan dei ruoli, né in famiglia, né in strada, ma ho sempre fatto molta fatica a chiedere aiuto. È più forte di me. Non ci riesco. Mi pesa più chiedere che cavarmela da sola, per quanto complicato possa essere.
Nei primi mesi, appena Pit è nato, mi sono accollata il peso di tutto sulle mie spalle e ripeto, non l’ho fatto perché fossi una madre sola o perché il padre non voleva esserci: l’ho fatto perché, semplicemente, ero entrata nel loop tremendo e malato del sono io la madre, sono io la donna. Un loop tremendo, appunto, e che non mi appartiene, ma del quale mi ero fatta corazza fin dai primi giorni respingendo l’aiuto di chiunque.
Questo è stato anche il motivo del fatto che il mio Compagno, sentendosi escluso, si è chiuso in se stesso, pensando di non essere all’altezza della situazione. Di non servire. Di non essere utile in quei primi, cruciali, mesi.
Mi c’è voluto del tempo, il blog, il confronto con colleghe e mamme, per capire che spesso gli uomini non si danno da fare solo perché noi donne tendiamo a fare tutto da sole. O semplicemente a sottolineare il fatto che a noi alcune cose riescono meglio che a loro. E alla lunga loro hanno il sacrosanto diritto di scocciarsi di questo gioco dei ruoli. Forzato e inutile. Ruoli, tra l’altro, privi di un valore reale. Utili solo a compiacere il nostro ego. O a trovare un alibi, un motivo per avere ragione di lamentarsi.
Mi ci è voluto ancora più tempo per trovare un equilibrio a tre. Un equilibrio che va bene oggi, ma domani chissà. Ma la vità è fatta per evolversi e noi evolveremo. Un equilibrio che passa attraverso l’unica cosa davvero sensata che si possa fare in una famiglia: giocare in squadra, passandosi la palla, costruendo un gioco che si bello, o meno bello, ma comunque sia funzionale e mirato all’obiettivo.
Quale sia l’obiettivo non l’ho capito, credo che per ogni famiglia oscilli più o meno pericolosamente tra la sopravvivenza e la felicità che, con un bimbo piccolo, è spesso fatta di arrivare interi a sera. Ogni sera. Avendo portato a termine i propri impegni, senza aver tralasciato le proprie ambizioni e, perché no, un po’ di spazi propri.
Chiedere non è semplice, esserci sempre per gli altri ancor di meno, ma di certo se si riuscisse ad uscire dai ruoli “padre” e “madre” per iniziare a concepirsi unicamente due esseri umani che sono “genitori”, il gioco di squadra sarebbe più semplice, verrebbe più naturale e aiuterebbe tutti ad essere meno stanchi.
E magari, alla fine, anche un pochino più sereni.
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