Fare bene, sempre meglio, in una spasmodica ricerca della perfezione: è il segreto del successo e della realizzazione personale o la strada per finire dritti dritti da un analista? Nello sport, in campo lavorativo o scolastico, l’ossessione della perfezione, il cosiddetto perfezionismo, può diventare una malattia, lo dicono anche gli esperti della York St. John University.
Analizzando i risultati di 43 ricerche condotte negli ultimi 20 anni, gli studiosi hanno avuto una conferma scientifica e statistica di qualcosa che forse anche noi comuni mortali potevamo intuire: esiste un perfezionismo buono e uno cattivo.
Da un lato, il perfezionismo sano è uno strumento di crescita, spinge a migliorarsi e a impegnarsi per raggiungere gli obiettivi, diventando un elemento quasi fondamentale per chi mira a lavorare ad alti livelli.
D’altra parte, però, il confine tra perfezionismo sano e perfezionismo malato è sottile, e non di rado l’ansia di migliorarsi può diventare vera e propria mania rendendoci stressati, nervosi, incapaci di gestire la tensione e perennemente insoddisfatti dei risultati raggiunti. E le conseguenze si vedono anche a livello fisico, con tutto un corollario di insonnia, stanchezza e disturbi alimentari.
Come spiegano i ricercatori, il perfezionismo malato interferisce anche con i rapporti sociali, trasformandoci in persone intolleranti verso noi stessi, non più in grado di accettare la possibilità di sbagliare, che viene al contrario vista come un evento disastroso. Si finisce così verso il burnout, una sorta di forte esaurimento da stress.
Com’è possibile uscire da questa spirale distruttiva? Per farlo occorre lavorare molto su se stessi, fissandosi degli obiettivi realistici e sforzandosi di vedere nella crisi e nel fallimento un’occasione per crescere imparando dai propri sbagli. Creatività, perseveranza e impegno dovrebbero essere altri criteri da prendere in considerazione quando valutiamo il nostro operato, indipendentemente dalla “perfezione” vera o presunta dei risultati.
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