Nata in Francia più di 40 anni fa grazie a Bernard Aucouturier e André Lapierre, la psicomotricità è un insieme di tecniche basate principalmente sul gioco e sul movimento, che hanno come scopo principale quello di aiutare corpo, mente e personalità del bambino, nelle diverse fasi della crescita (da 0 a 9 anni).
In particolare, tale disciplina risulta molto utile nel caso di blocchi o rallentamenti nel processo di maturazione dell’espressività motoria, del linguaggio, o nei rapporti di relazione con gli altri (genitori e coetanei) e ambiente circostante.
Per il suo approccio ludico, è particolarmente indicata per i bambini anche di tenera età. Infatti, attraverso il gioco, libero e sperimentabile in tutte le sue accezioni, i piccoli si sfogano fisicamente, liberando il corpo e lasciandosi andare alle proprie emozioni. Si scaricano le tensioni interne, imparando nuove tecniche per gestire al meglio la propria vita quotidiana.
Oltre al gioco libero, la psicomotricità, soprattutto quella “relazionale” usa anche particolari oggetti, chiamati “forme”, che, per la loro conformazione, sono in grado di tirare fuori la parte ancestrale e innata in ognuno di noi. Tali “forme” sono la palla, la corda, il cerchio, il bastone e la “non forma”.
A bene vedere, infatti, il nome esatto di questa disciplina è Terapia della Neuro e della Psicomotricità dell’età evolutiva. Da tale definizione appare chiaro il legame inscindibile tra la sfera neurologica e intellettiva con quella fisica. Ogni gesto, anche inconsapevole, infatti, è guidato da un pensiero e da un input cerebrale. Rivolgendosi ai bambini, che per loro stessa conformazione sono unici e difficilmente catalogabili, il bravo insegnante di psicomotricità dev’essere in grado di adattarsi a chi ha davanti, senza pretendere di adottare un unico approccio di insegnamento standard.
E il gioco libero, in cui ognuno esprime se stesso a suo modo, è il modo migliore per far emergere l’Io profondo di ogni bimbo.
Già Platone, infatti, diceva che “si può conoscere di più un bambino in un’ora di gioco che in un anno di conversazione”.
Il linguaggio dei più piccoli, infatti, non è quello verbale, ma quello del corpo.
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