Ieri stavo guardando una serie in tv in cui si parlava di depressione e disturbi della personalità e mio figlio, sette anni, mi ha domandato come mai “quella ragazza vuole solo dormire” e io, allora, come faccio solitamente, gli ho spiegato che era triste e che a volte la tristezza può diventare una malattia.
Lui come ogni volta ha fatto qualche domanda, io ho assecondato il suo bisogno di capire e ho risposto e poi, come ogni volta, il discorso è caduto.
Ho sempre pensato che i nostri figli meritassero da parte nostra tutta l’onestà possibile, anche per prendere le distanze da una generazione, quella dei nostri genitori, che ci hanno cresciuti imponendoci un senso del pudore che ci ha accompagnato per tutta la vita.
Che gli dovessimo un racconto il più onesto possibile anche delle storture che ci circondano. Che fosse un nostro dovere, uno dei tanti, restituire loro un’immagine che non fosse troppo edulcorata, ma realistica.
Però, mi chiedo anche se sia davvero necessario raccontare tutto, rendere mio figlio partecipe delle cose brutte che accadono, sempre e comunque.
Se non sarebbe più giusto preservare i nostri figli il più a lungo possibile, tenendoli al riparo dal dolore, dalla cattiveria, dalle ingiustizie.
La verità è che, come sempre quando si parla di questioni legate alla maternità, è difficile stabilire quale sia il confine tra giusto e sbagliato, perché molto spesso il giusto e sbagliato in senso assoluto non esiste, esiste il buonsenso e una sola, unica, incontrovertibile legge morale: essere onesti su tutto, tranne che su Babbo Natale.
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