Bambini soli sfidano il Mediterraneo per salvarsi. Vengono soccorsi mentre viaggiano su gommoni troppo carichi, in condizioni igieniche precarie, affamati, malati e disidratati. Le loro immagini fanno il giro del mondo e scuotono l’opinione pubblica. Eppure, anche se soccorsi, non sono ancora salvi.
I bambini salvati hanno ancora bisogno di aiuto
Secondo un rapporto dall’inizio dell’anno sono 350 i bambini e le donne che hanno perso la vita lungo le tratte migratorie. Di loro non c’è traccia. Anche coloro che sono stati salvati tuttavia continuano a vivere in condizioni durissime. La loro sorte è legata ad un filo, l’Unicef infatti denuncia che molti di loro potrebbero finire nei centri di detenzione libici, luoghi infernali in cui ogni dignità è calpestata.
Gli oltre 1100 bambini che attualmente si trovano in questi luoghi non hanno accesso all’acqua ed ai servizi sanitari. La loro fragilità li espone allo sfruttamento ed agli abusi. Qui infatti il rischio di finire nella rete dei trafficanti di esseri umani è molto alto. Ted Chaiban, Direttore regionale dell’UNICEF per il Medio Oriente e il Nord Africa e Afshan Khan, Direttore dell’UNICEF per l’Europa e l’Asia centrale e Coordinatore speciale per la risposta ai rifugiati e ai migranti in Europa denuncia la gravissima situazione e chiede aiuto. I migranti infatti hanno bisogno di un sostegno concreto per sfuggire alla miseria e alla disperazione da cui provengono.
Liberare i bambini dai centri di detenzione libici è una priorità
Chaiban annuncia che i tentativi di attraversare il Mediterraneo saranno maggiori nei prossimi mesi. La pandemia da Covid-19 infatti ha messo in ginocchio molti Paesi e ha reso le condizioni di vita sempre più difficili. Per molti bambini l’unica possibilità di sopravvivenza è quella di arrivare in Europa e sono pronti ad affrontare il mare, consapevoli del fatto che il viaggio in gommone possa rappresentare la morte. Chaiban chiede alle autorità libiche di rilasciare immediatamente i bambini e gli adolescenti che sono rinchiusi nei centri di detenzione. Il suo è un grido di dolore, un segnale di umanità nella disperazione.
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