Una delle prime cose che mio figlio mi ha chiesto sulla guerra è stata se chi combatte la guerra lo fa indossando le mascherine. Era preoccupato. Ha aggiunto che avrebbero dovuto indossarle perché altrimenti il rischio di morire sarebbe stato molto più alto. Il fatto che il suo immaginario abbia registrato come principale pericolo quello relativo al Covid, mi ha fatto stringere il cuore. Non ho saputo cosa dire, troppa tenerezza, troppa tristezza. Troppe catastrofi da elaborare, una normalità che mio figlio conosce appena essendo stati i canoni di normalità, stravolti e spazzati via quando lui era fin troppo piccolo.
Più che spiegare la guerra, che in effetti fatico a raccontare anche a me stessa perché c’è più di qualcosa che non riesco a capire, la cosa che mi atterrisce è quella di vedere i nostri bambini dovere affrontare paure enormi.
Paure che anche noi adulti non sappiamo come fronteggiare.
A volte mi mancano le parole, altre ne ho troppe e forse troppo brutali per un bambino, ma rispondere che non lo so, non mi piace mai. Quando lo fanno a me, quando chi secondo me dovrebbe saperne di più mi dice che non lo sa, io mi perdo.
Per questo cerco di rispondere sempre, di farlo in maniera concreta, insegnandogli non il senso di impotenza ma a concentrarsi su quello che realmente possiamo fare.
Imbustare vestiti che non mette più, andare insieme a comprare medicinali, fare una spesa per gli altri. Credo che se un’opportunità, in mezzo a tutte queste atrocità c’è, sia solo quella di poter insegnare la gentilezza verso gli altri.
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