Una delle due doveva essere pigra. Questo era chiaro per il personale sanitario che mi aiutò con l’allattamento dopo aver partorito.
Dapprima la pigra, la svogliata, la poco tenace ero io.
Non riuscivo ad allattare? Era perché non ci provavo abbastanza. E così capitava che in un solo giorno mi trovassi senza consenso, manco a dirlo, decine e decine di mani addosso per palparmi, strizzarmi e pressarmi il seno affinché riuscissi ad allattare.
Eppure, nonostante gli infermieri mettessero la determinazione che avevano deciso che a me mancava, neppure loro riuscivano a fare attaccare la bambina al seno.
La pigra allora doveva essere lei.
“È una bimba grande”, dicevano. “Quelli così non si attaccano” e intanto spingevano la sua testolina contro il mio seno senza nemmeno lasciarle il tempo di respirare.
Sono stati così i nostri primi giorni insieme. Costrette in incontri spiacevoli, troppo lunghi, pieni di occhi, mani e lingue indiscrete. Non importa che fossi arrivata in ospedale con il curriculum della gestante perfetta, leggi due corsi preparto e un’autentica convinzione di voler allattare mia figlia a richiesta, se la bambina non si attaccava la colpa era di una delle due.
Prime ore insieme
Pigrizia o meno, le ore di digiuno iniziarono a sommarsi e a diventare tante. Alla fine del secondo giorno a stomaco vuoto chiesi all’infermiera il latte artificiale da dare alla bambina.
“Non sei mica tu a decidere”, mi rispose lei per tutto punto e così capii che l’unico modo di ottenere qualcosa era provare loro che anche con più determinazione non sarebbe cambiato molto.
Mi sottoposi di nuovo a quella tortura.
Ricordo la poca cura, la mancanza di ascolto, il totale disinteresse per le mie necessità, i pianti della bambina e la sensazione che ci fosse qualcosa di profondamente sbagliato in quello che stava accadendo.
Fu solo dopo questo ulteriore tentativo che finalmente ottenemmo l’agognato latte artificiale, almeno per quella poppata.
Qualche ora dopo lo strazio ricominciò e quando mi iniziarono a parlare di dimissioni avanzai la richiesta della pillola per mandare indietro il latte.
Mi guardarono in modo canzonatorio. Cosa mi faceva pensare di poter essere io a decidere? Capii che nemmeno i numerosi fallimenti degli ultimi tre giorni erano stati sufficienti perché mi concedessero questa grazia.
Il giorno delle dimissioni
Finalmente mi fu fissato un appuntamento con il medico di riferimento e con la psicologa. L’incontro iniziò così: “Perché ha deciso di non allattare al seno? ne è proprio sicura? È consapevole che priverà sua figlia di tutti i benefici di cui è ricco il latte materno e che questo la esporrà a malattie e ad altre fragilità?”
Non servì molto far riflettere le dottoresse che se non c’era riuscita un’intera équipe altamente preparata di certo non potevo riuscirci io, da sola, in casa. Cosa avrei dovuto fare secondo loro? Assumere un’ostetrica privata? Lasciare digiuna mia figlia così da farla attaccare?
Dalle loro espressioni capii che erano già passate oltre e che rapidamente avevano catalogato quanto accaduto come qualcosa di volontario e deliberato, quando io sentivo di non aver deciso molto nei giorni passati.
Come loro, anche molte persone a me vicine avevano deciso, su chissà quali basi, che doveva essere colpa del mio latte. “Cattivo”, dissero “per via dello stress”.
La forza di nominare ciò che è
Presa dalla bambina e dalla nostra nuova vita insieme non pensai più all’accaduto finché un giorno incappai nel manifesto dell’iniziativa #ANCHEAME e lessi le storie di decine e decine di donne che avevano subito violenza ostetrica.
E mi resi conto.
Nei loro racconti riscontrai una cosa che come donna avevo imparato a conoscere sin da piccola: la paura.
La paura di vivere una brutta esperienza, di non essere ascoltata, rispettata, supportata. Una paura diffusa ma invisibilizzata e catalogata come fissazione, eccessiva preoccupazione, qualcosa a cui non pensare per non passare come esagerata.
Eppure ricordo che quella paura era così comune che perfino nei veloci scambi tra mamme non ci si chiedevano più informazioni generiche sulla vita dopo un bambino ma ci si scambiava numeri di telefono di ostetriche fidate, recensioni di ospedali in cui andare a partorire, consigli su servizi meno medicalizzati e forse meno sicuri del parto in struttura.
Perché? Perché nessuna di noi si sentiva sicura.
Ci scambiavamo queste informazioni arrangiandoci, come siamo sempre state abituate a fare. Non volevamo che altre avessero una brutta esperienza non capendo che così lasciavamo indietro chi a quella rete di informazioni non arrivava e chi quella sicurezza non la poteva comprare.
Oggi un gruppo di attiviste, giornaliste, avvocate, mediche ed esperte ha fatto in modo che quella rete di consigli privata fosse un punto da cui partire per ottenere qualcosa di concreto per tutte e tutti noi. L’idea è quella di presentare una proposta di legge per regolamentare gli ambienti dedicati alla maternità, alla genitorialità e alla salute intima perché nessuna debba più subire abusi e violenze.
Una parte consistente del lavoro sarà quella di iniziare a nominare la violenza ostetrica per imparare a identificarla e per stabilirne i confini. Spesso, a causa dei nomi altisonanti e della normalizzazione di atteggiamenti discriminatori da parte della nostra società, abbiamo difficoltà a riconoscere ciò che è giusto e ciò che non lo è, e a denunciare quando questi confini vengono valicati.
Essere tutelate, informate e rispettate è un nostro diritto e solo un’azione collettiva ci assicurerà che più nessuna di noi rimanga indietro.
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