A volte, mi capita di pensare ai tempi dell’università, ai mesi per preparare alcuni esami. Traguardi, esame dopo esame, anno dopo anno, che avevano il sapore della fatica, del compromesso e della vittoria.
Ricordo amiche ed amici con il quali condividevo la facoltà, e mi è più facile scovare nella mia memoria, maggiore determinazione da parte delle prime. Da parte delle ragazze. Maggiore tenacia, maggiore impegno.
A volte, mi capita di pensare a chi, attualmente, è senza lavoro: tra quelli che non si riescono a collocare da anni, quelli che sono stati ridimensionati, quelli che hanno dovuto rivedere le proprie ambizioni, quelli che hanno dovuto rinunciare. I conti non tornano rispetto alla determinazione e alla preparazione dei tempi dell’università: perché tra coloro che sono a casa o che occupano posizioni più basse, o peggio pagate, ci siamo noi. Le ragazze di allora.
Certo, la mia è una fotografia parziale. Ho conosciuto ragazzi preparatissimi, studenti brillanti come anche ragazze che non avevano voglia di impegnarsi. Fatto sta che di uomini disoccupati, discriminati, ridimensionati, o che erano ambiziosi e che hanno dovuto rivedere i propri sogni, non ne conosco.
Le assunte nonostante incinte
Ogni tanto, fa notizia la storia di una giovane donna che, nonostante i figli piccoli, sia riuscita a tornare a lavoro. Ogni tanto leggo di aziende che si vantano di offrire un equo trattamento, nonostante si sia donne, mogli e madri, o nonostante si abbiano questi desideri. Nonostante, non so se ci rendiamo conto.
Se già per le ragazze, per le donne, il lavoro è uno slalom fra le faccende domestiche ed il trovare il calzino spaiato del partner, che ce l’ha sotto il naso da generazioni, ma continua a delegare la compagna per aprire il cassetto, per le mamme il lavoro è una roba da circo.
“Fare i salti mortali” è la frase più pronunciata dalle mamme lavoratrici che detesto di più. Questa gara a chi fa l’acrobazia più rocambolesca vede più perdenti che vincitrici. Ormai dovremmo saperlo che, per farcela, si deve procedere in avanti, non in alto, nel vuoto.
Ogni tanto, fa notizia la storia di una mamma che, con ancora il neonato attaccato al seno, a pochi giorni dal parto, torna al lavoro. Bene, dico, se lei è contenta, Male, però, che si pubblicizzi questo esercizio fisico fra la riabilitazione al perineo, le ragadi al seno, l’episiotomia che ancora duole di brutto con il prendere la metropolitana alle cinque del mattino per correre al lavoro, come si fosse delle eroine.
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Il lavoro è talmente basato su criteri maschili che, per arrivarci, starci e sedersi al proprio posto, per noi diventa una gara a chi è più multitasking, a chi è più martire, a chi è più donna-mamma-lavoratrice dai poteri ultraterreni.
E siccome sappiamo che solo una ce la fa, se vengono pretese ed esaltate queste caratteristiche, a tutte le altre, quelle che tornano a lavoro più tardi, quelle che si prendono una pausa, quelle che cercano il part-time, quelle che non lavorano, non spetta altro che la lettera scarlatta. Una macchia indelebile, peggio di un tatuaggio, che suona come: mantenuta, tu te le puoi permettere, privilegiata, sfigata, fallita, casalinga.
Fare la mamma o essere una mamma
Difficilissimo capire quale verbo possa stare accanto alla parola mamma, senza che diventi un abominio.
Se sei una mamma vuol dire che ti identifichi con la sola funzione biologica, ormai anche parecchio retrò, ed in disuso. Se fai la mamma vuol dire che, nonostante tutte le competenze, le abilità che metti in campo, a livello professionale sei una fallita.
Pochi e poche pensano all’effettiva libertà che abbiamo, quando si parla di scegliere cosa voler fare nella propria vita.
Perché quando siamo in un perimetro ben definito, dove non si può barare -se hai studiato, superi l’esame, altrimenti vai a casa e studi meglio- possiamo scegliere, ma quando passiamo nel mercato del lavoro, dove le nostre competenze hanno lo peso di altri fattori, piuttosto discutibili, perdiamo un po’ del nostro arbitrio.
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Per una donna che ha dei figli e sta a casa, quasi mai è una passeggiata di salute o una scelta serena. Quasi mai una donna che è andata a scuola, che ha preso un master, che ha viaggiato, che ha imparato delle lingue, oppure che, dopo la scuola si è messa subito a lavorare, aveva in mente il progetto di stare chiusa a casa, ed essere trattata come una nullità dalla società. Una società che, parliamoci onestamente, se non hai una funzione economica, a stento ti considera degna di un cenno, di un saluto.
Si fa fatica a dialogare con una persona che non lavora. Cosa le chiedi? Come sta andando in casa? Come ti trovi con la lavatrice nuova?
La mamma casalinga o la mamma disoccupata
Ad una mamma che sta a casa tutto il giorno non chiedi più nulla, perché il non avere una scrivania la rende una persona che non ha più nulla da dire o da offrire.
Anche se era quella che ai tempi in cui si stava nel perimetro ben definito, dove contava la preparazione, ti faceva mangiare la polvere.
Conta solo l’oggi: mentre tu hai uno stipendio, mentre tu fai i salti mortali, mentre tu non hai avuto scelta contrariamente a quanto pensi di lei, quella mamma è disoccupata, è una casalinga.
Una donna bersaglio per quelle che si dilettano in attività circensi, mentre lei va a farsi il semipermanente tutti i giorni dispari.
Perché in questo mondo del lavoro, progettato ad immagine e somiglianza dell’uomo, che guadagna sempre più di te che indossi i tacchi a spillo, credendo che quel supplizio possa portarti alla sua stessa altezza, la guerra si fa con le bende agli occhi.
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