3 settembre 2024 –
Dopo i tragici eventi avvenuti a Paderno Dugnano, Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta specializzato nell’età evolutiva, ha condiviso sui social una profonda riflessione sull’accaduto: un ragazzo di 17 anni ha compiuto un atto efferato uccidendo la propria famiglia.
Pellai si interroga sul perché di questo dramma, ponendo l’accento sull’approccio al disagio degli adolescenti in famiglia.
Strage di Paderno Dugnano: perché è successo?
Non è proprio possibile capire adesso e con precisione cosa abbia spinto il giovane protagonista di questa tragedia a compiere un atto così efferato, ci proveranno i magistrati e gli inquirenti. Ma dall’esterno è difficile capire cosa possa essere successo.
Ci sono stati in questi giorni altri episodi di cronaca in cui è emersa una violenza estrema, spesso senza una consapevolezza delle conseguenze delle azioni commesse. Le dichiarazioni dell’adolescente accusato del triplice omicidio, riportate da numerosi giornali, parlano di un profondo senso di alienazione e disconnessione provato dal giovane.
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Tutti hanno descritto questa famiglia dell’hinterland milanese, come una famiglia perfetta, serena e felice. Tutti dicono che non ci fosse nessun segnale nel comportamento del ragazzo 17enne prima della tragedia: ma certe volte i segnali sono molto difficili da intercettare e interpretare. E il problema non è solo questo. Il fatto è che anche se ci fossero segni inequivocabili di un disagio, come agisci?
Alberto Pellai: la diseducazione a guardarsi dentro
Nella sua lunga riflessione Pellai parla soprattutto del disagio interiore provato dai giovani, un disagio che spesso rimane inespresso e inascoltato.
Pellai rimarca la posizione anomala di tanti ragazzi e adolescenti:
Ci troviamo di fronte a “quasi adulti” che trattano la vita propria e degli altri come un bene di poco valore, come se avessero a che fare con bambolotti o pupazzi di pezza. Che non sembrano aver sviluppato il concetto di bene e di male e quindi non lo usano come filtro da interporre tra ciò che pensano e ciò che fanno. C’è una totale diseducazione a guardarsi dentro e a leggersi dentro.
La diseducazione in questo senso parte dalla famiglia e dalla rete sociale: per lungo tempo il disagio interiore è stato squalificato come inesistente e messo da parte. Sta “tutto nella nostra testa” sì, ma è importante e bisogna dargli il peso che ha, oltre che dare ai nostri figli gli strumenti per affrontare il loro disagio emotivo. In questi ultimi anni abbiamo forse iniziato ad aprire gli occhi: il lockdown e il Covid ci hanno mostrato con evidenza le conseguenze della pandemia e del disagio mentale.
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In questa società del tutto e subito, sentire dolore e disagio interiore senza sapere come dirlo, a chi dirlo e cosa farne è un fenomeno frequente soprattutto nei maschi che vivono una crescita in cui essi stessi fanno milioni di cose, ma parlano pochissimo del dolore che vivono ed elaborano ancora meno il significato che accompagna i loro stati emotivi disagevoli.
Il dolore degli uomini e dei ragazzi
Un altro punto toccato da Alberto Pellai riguarda infatti la cultura del “maschio forte”, una visione ancora molto diffusa per cui l’uomo non deve piangere, né mostrarsi debole. È stato educato sin da piccolo a mostrarsi forte e in grado di schiacciare tutti i suoi avversari, come in un film, come in un videogioco. Vi sembrerà uno stereotipo, perché è così.
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Senza accorgercene a volte applichiamo nell’educazione dei nostri figli quei valori che ci rappresentano, che rispondono alla nostra visione del mondo: le femmine devono essere dolci e carine, i maschi forti e combattivi.
Ma se il dolore degli uomini è inteso sempre e solo come qualcosa che va nascosto e che rende fragili, se chiedere aiuto è considerato fragilizzante e “roba da femmine”, che cosa resta nell’esperienza e dell’esperienza del dolore a chi nasce e cresce maschio? Solo il bisogno di nasconderlo, di fingere di non sentirlo e se arriva, di lasciarsene travolgere nel silenzio di tutti per poi trasformarlo in gesti caotici pieni di potenza distruttiva.
Allo stesso modo noi genitori proteggiamo forse troppo i nostri figli dalle asperità della vita: cerchiamo di renderli felici, di dargli cose e benessere, ma forse, anche se sono elementi importanti, dovremmo concentrarci sull’insegnare loro a vivere, ad allenarli alla vita:
Ma ciò che serve di più è che i nostri figli ci vedano desiderosi della loro autonomia, capaci di spingerli là dove il terreno della vita è sconnesso e aspro, non impauriti dalle loro cadute e dalle sbucciature dei loro cuori e delle loro ginocchia.
Il coraggio di chiedere aiuto
E poi Pellai conclude “In questo momento dove tutti siamo pieni di paura, i nostri figli hanno bisogno di una sola cosa: di adulti coraggiosi che sappiano testimoniare che anche dentro il dolore ciò che conta davvero è tenere alto lo sguardo verso il cielo. E verso lo sguardo di tutti gli altri intorno a noi“.
Forse la paura e il coraggio di cui parla Pellai stanno qui: dal riconoscere la propria paura come emozione reale e legittima, e cercare di affrontarla, con il coraggio di aprirsi alle persone in grado di aiutarci. Il coraggio appunto di chiedere aiuto. Anche solo con una chiacchierata.
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