“Papà, non sopporto più lo smartphone“, sono state queste le parole pronunciate da un 12enne di Bitonto qualche settimana fa, proprio quando il Ministero della pubblica Istruzione sta cercando nuovi metodi per contrastare il cyberbullismo.
Restituisce il cellulare al papà
Fabrizio, il ragazzino protagonista di questa storia, sembra aver trovato il proprio rimedio personale al problema. Due domeniche fa, infatti, ha consegnato il cellulare al padre, facendolo trovare, chiuso in una busta, nello zaino dove conserva i documenti. Alessandro, il papà, racconta di non aver dato troppo peso alla cosa all’inizio, anche se tutto è sembrato più strano quando, dopo due giorni, il cellulare era ancora là.
Dopo aver chiesto le motivazioni al figlio, Fabrizio ha risposto che non ne poteva più del cellulare e glielo stava ridando indietro. I genitori del ragazzino sono entrambi architetti e, come educatori, avevano pensato che il figlio avesse restituito il telefono perché stanco del modello o perché volesse chiedere qualcosa in cambio magari influenzato dai coetanei.
Quando lo smartphone ci divide dagli altri e dalle passioni
Invece no, Fabrizio desidera proprio non essere come gli altri. Assieme a sua sorella maggiore (16 anni), il ragazzino frequenta la scuola B. Franklin, dove all’ingresso si lasciano i cellulari nell’armadietto per poi venire ripresi alle 17, quando si esce. Fabrizio ha molte passioni e quindi ha deciso che il cellulare era un “intralcio” a queste, perché guardava continuamente l’ora, il tempo non passava mai. Ora suona la batteria, svolge altre attività e le ore volano via veloci. Il ragazzino confessa di aver avuto delle difficoltà all’inizio, perché pensava spesso al cellulare, mentre ora si sente “libero” e non sa come organizzare le tante cose che desidera fare.
Fabrizio dovrebbe essere da esempio anche agli insegnanti delle scuole. Per lui il cellulare era diventato “una gabbia, una droga“. Ora che non guarda più il mondo da uno schermo, sente di riuscire a vedere finalmente realtà. Fabrizio racconta di aver avuto anche un po’ di paura di venire giudicato o deriso dai compagni, salvo poi dirsi che non ha fatto niente di male ma, anzi, forse si è fatto del bene.
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