Oggi parleremo di un argomento che riguarda l’esperienza di molti genitori: i bambini e la loro comfort zone. Diamo il benvenuto alla Dott.ssa Gregorini, che ci aiuterà a capire meglio questo tema.
Dottoressa, quando è opportuno sollecitare i propri figli a fare cose nuove anche se manifestano un rifiuto? Come capire se è bene rispettare i loro “no” o aiutarli a superarli?
– Si tratta di approfondire un concetto molto esplorato per le persone adulte ma poco per i bambini: la Comfort Zone, ossia una dimensione in cui l’individuo sperimenta bassi livelli di ansia, stress e paura, si sente a proprio agio e vive uno stato psicologico in cui tutto viene percepito come familiare e in cui i comportamenti diventano ripetibili e conosciuti, esercitando un controllo che può favorire l’adattamento e ridurre al minimo la quota di imprevedibilità.
Ci sono adulti che rimpiangono di non aver fatto esperienze perché non sufficientemente incoraggiati e sostenuti dai genitori, altri che hanno sviluppato il rifiuto per alcune attività poiché troppo pressati. Capiamo insieme quali segnali osservare e quali strategie adottare per orientarsi al meglio.
I Bambini e le loro comfort zone
Partiamo dalla prima domanda, Dott.ssa: la Comfort Zone è negativa per un bambino?
La Comfort Zone è una realtà esterna, ma anche uno stato mentale interno e svolge un importante funzione adattiva: facilita le esperienze del bambino.
Non è una dimensione in assoluto negativa, anzi, permette di apprendere comportamenti efficaci, sperimentare la rassicurazione, fronteggiare lo stress.
La Comfort Zone può rappresentare una “base sicura” per il bambino da cui muoversi per fare nuove esplorazioni.
Il problema subentra quando la Comfort Zone diviene una gabbia ed il bambino non riesce ad affrontare i cambiamenti, quando il bisogno esercitare un controllo sulla realtà diviene eccessivo ed impedisce l’introduzione di nuovi stimoli.
Uscire dalla propria Comfort Zone non significa debellarla ma poter integrare a ciò che è familiare e rassicurante ciò che non si conosce. Ciò permette, sin dall’infanzia, di crescere e di conoscersi meglio, incrementando la propria autostima e autoefficacia.
Quindi, un genitore non deve pretendere che il figlio abbandoni la propria Comfort Zone?
Assolutamente no. È importante che il genitore osservi se, accanto alla Comfort Zone, che ha un valore funzionale e positivo se non diviene inglobante e totalizzante, c’è spazio per altre esperienze.
Se il bambino rifiuta tutto ciò che è al di fuori della Comfort Zone è un campanello d’allarme da ascoltare e comprendere a fondo.
Facciamo un esempio concreto: è sano che un bambino percepisca come rassicurante la sua casa, il rapporto con il suo “amico del cuore”, il parco giochi dove va ogni pomeriggio, ma se non riesce a socializzare con altri bambini, rifiuta ed entra in crisi la possibilità di cambiare per una volta parco può esserci una difficoltà più profonda.
È quindi naturale e fisiologico che il bambino provi meno ansia quando fa ciò che conosce, ma ciò non deve impedire di fare anche altre esperienze.
Da cosa può dipendere la difficoltà di un bambino ad abbandonare la propria Comfort Zone?
Non si può generalizzare, ma evidenziamo i principali elementi che possono bloccare il bambino nella Comfort Zone.
Il primo è la fiducia in sé stesso e verso l’esterno: se il bambino si fida delle proprie capacità potrà sentire di avere le risorse per affrontare ambienti nuovi e attività che non conosce.
La fiducia di base viene trasmessa dai genitori sin dai primi passi che il bambino compie.
I genitori hanno un ruolo fondamentale sia nel trasmettere al bambino la fiducia in sé stesso, sia nel veicolare un’immagine del mondo esterno come non troppo minaccioso e spaventoso. Promuovere la fiducia nel bambino non significa fornirgli una rappresentazione di sé super eroica ma umanizzata, che integri le risorse e le fragilità.
Un eccesso di fiducia in sé stesso può infatti nascondere un’insicurezza profonda, far sottostimare i rischi e i pericoli e provocare un’intolleranza alla frustrazione. Un bambino iper-controllante è un bambino che fa fatica ad affidarsi.
Il secondo elemento fondamentale è l’ansia da separazione. Se il bambino esprime ansia nel compiere movimenti di autonomia e crescita, tra cui uscire dalla Comfort Zone, potrebbe essere presente un’eccessiva ansia da separazione, che non appartiene mai solo al bambino, ma anche ai genitori.
Infine, il bambino potrebbe aver vissuto esperienze traumatiche, non aver elaborato delle paure legate ad esempio ad episodi di aggressività.
Genitori e bambini: aspettative e paure
Quindi, Dottoressa, quando è importante rispettare il “No” del bambino e quando invece provare ad invogliarlo?
È importante chiedersi, in base alla conoscenza del bambino, quali siano le motivazioni del “No”. In primis, è importante parlarne con il bambino ma non sempre egli è consapevole delle ragioni profonde del suo comportamento.
Poi, è bene osservare il “No” all’interno del complessivo equilibrio del bambino. Se è in una fase di sovraccarico di impegni, ad esempio, il suo “No” può essere un sano limite protettivo da valorizzare e rispettare. Se, il bambino non ha difficoltà a sperimentarsi in esperienze nuove, ed è un “No” isolato può rispecchiare la sua personalità, i suoi gusti, le sue propensioni.
È fondamentale chiedersi se quel “No” pesa sulle aspettative genitoriali, più che sull’equilibrio del bambino. Facciamo un esempio, una bambina che fa nuoto e le piace molto e rifiuta una scuola di danza può semplicemente esprimere la sua soggettività. Se la mamma ha la ferita di non essere diventata una ballerina, può inconsapevolmente proiettare sulla figlia un’aspettativa, cercando involontariamente di colmare la propria ferita.
Come reagire al rifiuto del bambino?
E quando invece il “No” rispecchia una paura come è possibile intervenire?
Partiamo da una premessa essenziale: bisogna imparare a rispettare i tempi soggettivi del bambino. Non tutti hanno gli stessi ritmi di crescita e sviluppo. Secondariamente, ci sono delle strategie che il genitore può attuare per tentare di incoraggiare il bambino:
- Incoraggiare le attività extra routinarie, inizialmente accompagnandolo.
Ad esempio, andare con lui la prima volta in un nuovo parco giochi, esplorarlo
insieme e poi in futuro mandarlo anche con altre persone (amici di fiducia, genitori
di un compagno di classe, nonni ecc.). - Valorizzare le nuove abilità del bambino, facendogli notare che prima non
sapeva fare una determinata cosa ma poi è riuscito ad apprenderla. - Procedere per piccoli passi, gradualmente: se per esempio il bambino non vuole
dormire dai nonni, il genitore può dormire insieme a lui dai nonni, prima di chiedergli
di farlo da solo. - Raccontare le proprie esperienze infantili per incoraggiare il bambino, ciò
aiuta l’umanizzazione del genitore, far comprendere che anche mamma e papà
hanno avuto delle difficoltà, che fanno parte del percorso di crescita. - Aiutare i bambini a costruire la resilienza: trasmettere ai figli che si può sbagliare
ed è umano sbagliare. Far sentire che se il bambino sbaglia non sta deludendo
nessuno ma potrà crescere dagli errori. - Non costringere il bambino: si può incoraggiare, spronare ma non costringere.
Per comprendere i comportamenti di un bambino è importante non considerarlo una monade, ma riconoscere la sua profonda interconnessione emotiva con gli adulti, in primis con i genitori.
Essere consapevoli di sé è il primo passo per accompagnare il bambino nella sua crescita, fatta di movimenti in avanti, battute di arresto e regressioni. La crescita non è un percorso lineare ed esente da ostacoli. Occorre valorizzare la soggettività del bambino, sconfiggendo i miti mediatici di perfezionismo e infallibilità.
Giulia Gregorini – Psicologa e psicoterapeuta ad orientamento sistemico relazionale. Lavora con individui, coppie e famiglie. Considera la crisi un ‘opportunità di crescita e la famiglia una risorsa nella cura.”
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