Galimberti e i DSA: ‘Colpa dei genitori, la scuola sembra una clinica psichiatrica’

4 marzo 2025 –

Secondo il filosofo e psicanalista Umberto Galimberti è tutta colpa dei genitori. L’aumento delle certificazioni di Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) e sulle diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico, sarebbero in parte imputabili a un abuso di richieste da parte dei genitori, che vogliono a tutti i costi facilitare la vita ai loro ragazzi.

Un confronto (discutibile) con la scuola di “un tempo”

“Sono tutti discalculici, disgrafici, dislessici, asperger, autistici…Ma chi l’ha detto? Ai miei tempi…” sono parole del filosofo Umberto Galimberti, durante un convegno dedicato al mondo della scuola. Parlando delle numerose diagnosi per i DSA e disturbi dello spettro autistico ha detto che “la scuola elementare sembra essere diventata una clinica psichiatrica”.

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Ha quindi paragonando la scuola attuale a quella dei suoi anni da studente, ha lamentato come oggi ci siano numerosissime certificazioni per condizioni come la dislessia, la discalculia, la disgrafia, la sindrome di Asperger e l’autismo.

Secondo lui, in passato gli allievi si dividevano semplicemente in “più bravi” e “meno bravi”, con la convinzione che, con impegno e costanza, tutti potessero migliorare. È qui che nascono i primi punti di attrito: se da un lato è vero che cinquant’anni fa non si parlava così diffusamente di disturbi dell’apprendimento, dall’altro occorre ricordare che il progresso scientifico e diagnostico ha permesso di identificare problematiche che prima restavano nell’ombra o venivano etichettate come “pigrizia” o “mancanza di volontà”.

L’accusa ai genitori: la ricerca di percorsi agevolati

Un altro aspetto che ha fatto discutere riguarda l’accusa di Galimberti verso le famiglie. Egli sostiene che molti genitori spingerebbero per ottenere una diagnosi, così da assicurare ai figli percorsi scolastici agevolati o adattamenti didattici. È una posizione che ha suscitato numerose reazioni critiche.

In molti hanno fatto notare come una diagnosi di DSA o di autismo non sia una “ricetta” che può essere rilasciata con eccessiva leggerezza: richiede invece competenze specifiche, esami approfonditi e un processo di valutazione clinica lungo e complesso.

Dire che i genitori “cercano scorciatoie” sottende il rischio di sminuire le difficoltà reali di tanti ragazzi, le cui famiglie vivono spesso un percorso non privo di sofferenze e incertezze prima di ottenere aiuto.

Il ruolo degli insegnanti di sostegno

Altro punto spinoso riguarda il riferimento agli insegnanti di sostegno, figure essenziali nell’accompagnare gli studenti con disabilità e difficoltà importanti. Galimberti ha paventato un uso eccessivo del sostegno, chiedendosi se abbia senso affiancarlo anche a chi abbia “soltanto” disturbi di apprendimento come la dislessia.

Vale però la pena chiarire che i ragazzi con DSA, di norma, non hanno diritto all’insegnante di sostegno, bensì a misure didattiche specifiche (come tempi extra, strumenti compensativi o modalità di valutazione differenti).

L’insegnante di sostegno, per legge, viene assegnato a studenti con certificazioni di disabilità che comportino una compromissione funzionale significativa. Dunque, la polemica appare basata su un equivoco: confondere le strategie didattiche personalizzate con la presenza di un docente appositamente formato.

Il commento di Roberta Villa: la riflessione sulla “neurodiversità”

Un punto di vista significativo è stato offerto dalla giornalista medica Roberta Villa, che ha ricordato come, “ai suoi tempi”, il percorso scolastico fosse molto diverso e che, spesso, i bambini lasciassero presto i banchi di scuola per andare a lavorare.

Per questo, decenni fa, non solo era raro proseguire oltre la scuola elementare, ma di conseguenza non venivano prese in considerazione – né tantomeno diagnosticate – eventuali difficoltà di apprendimento come dislessia o discalculia. Le percentuali di chi terminava le scuole medie o conseguiva la laurea erano nettamente inferiori rispetto a oggi e, quindi, le esigenze della società spingevano a non “sovradiagnosticare” problemi che si manifestavano fra i banchi di scuola.

Secondo Villa, è solo dagli anni Novanta che i Disturbi Specifici dell’Apprendimento sono stati inquadrati in modo chiaro: prima di allora, ragazzi e ragazze con difficoltà venivano considerati poco dotati o poco volenterosi.

Villa riconosce tuttavia il rischio di “una eccessiva medicalizzazione” e invita a riflettere sul concetto di neurodiversità, per cui ogni individuo possiede un proprio modo di imparare e relazionarsi, e la scuola dovrebbe essere pronta ad accogliere queste differenze con strategie didattiche adeguate, indipendentemente dalla presenza o meno di un’etichetta formale.

Diagnosi e inclusione: come è cambiato il panorama

Da molti commentatori infatti è stato ricordato che l’aumento di diagnosi non corrisponde necessariamente a un aumento effettivo dei disturbi, ma può riflettere una migliore conoscenza di condizioni in passato misconosciute o sottovalutate. In un’epoca in cui la scienza medica e psicologica ha fatto grandi passi in avanti, è naturale che ci siano più dati disponibili e una maggiore capacità di riconoscere vari tipi di neurodivergenze.

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Essere “neurodiversi” non significa avere un difetto, ma piuttosto possedere un modo di apprendere e relazionarsi differente. Le scuole moderne cercano di rispondere a queste sfide adeguando programmi e metodi di insegnamento, un processo che mira a garantire un’istruzione davvero inclusiva.

La scuola come luogo di crescita, non di etichette

Molti specialisti hanno poi sottolineato come la scuola non dovrebbe limitarsi a valutare le prestazioni, ma puntare alla formazione umana e culturale dello studente. Il rischio, quando si etichetta un ragazzo come “pigro” o “meno portato”, è di generare disagi ancora più grandi, specie se dietro quella difficoltà si nasconde effettivamente un problema di natura diversa.

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L’uso delle “etichette” – innegabilmente cresciuto negli ultimi anni – non è per forza negativo. Se un riconoscimento clinico puntuale permette di cucire su misura un percorso pedagogico, allora si sta aprendo una strada più equa e inclusiva. Al contrario, trasformare la diagnosi in un modo per “barare” e sottrarsi all’impegno scolastico non fa bene né allo studente né all’istituzione che lo accoglie.

Riconoscere la complessità dietro alle diagnosi

Le parole di Umberto Galimberti hanno colpito un nervo scoperto, perché portano alla luce lo scontro tra il desiderio di mantenere alti gli standard scolastici e la necessità di offrire un supporto concreto a chi vive reali difficoltà. Non si tratta di demonizzare né di giustificare a priori, ma di analizzare in profondità il fenomeno.

È bene ricordare che le famiglie non redigono diagnosi da sole: ci sono équipe mediche e specialistiche preposte. La scuola, d’altro canto, si trova a gestire una sfida non semplice: garantire a ogni studente, compresi quelli con DSA o nello Spettro Autistico, gli strumenti giusti per far emergere potenzialità spesso nascoste.

Fare di tutta l’erba un fascio rischia di alimentare una narrazione semplificata, che non coglie la realtà di tante famiglie e ragazzi in cerca di ascolto e validazione. Forse la strada per migliorare la scuola non passa dall’accusare qualcuno, ma dal collaborare per costruire percorsi che rispettino ogni differenza, senza per questo rinunciare all’eccellenza e alla crescita di tutti.

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