In questo periodo mentre porto i miei figli al parco e mi diverto insieme a loro a sentir scricchiolare l’autunno sotto ai nostri stivaletti, non posso far a meno di pensare che una donna, come me, e dei bambini, come i miei figli, in un luogo che per loro è casa, stanno correndo e si stanno nascondendo a causa della guerra, e ciò che sentono è soltanto il rumore delle bombe. Un rumore che non so descrivere, perché non lo conosco, perché, a quanto pare, sono nata nella parte fortunata del mondo, la parte in cui in autunno a cadere e a essere schiacciate sono le foglie e non gli innocenti.
Penso ai miei figli quando vedo i volti di quei bambini spaesati, spaventati e feriti dalla guerra. E non so nemmeno descrivere dove va la testa quando vedo le immagini di quelle donne piegate sui corpi dei loro figli. Penso al dolore immane che si può provare a vivere in quella condizione. E mi si paralizza il cervello.
Eppure, c’è chi le sta vivendo queste guerre.
Questo sentire è devastante, soffro come essere umano e mi ci immedesimo come madre, quei bambini sono anche figli nostri, e non è una questione di fede, ma di umanità.
Le parole forti della scrittrice Amy Key
“L’idea che io abbia bisogno di un figlio mio per provare un dolore acuto per l’uccisione di bambini e neonati è incredibilmente offensiva. Non ho bisogno di avere bambini per sentirmi protettiva nei loro confronti, per voler stringere in un abbraccio piccoli che soffrono“.
Questo il concetto espresso dalla scrittrice e poetessa londinese Amy Key all’interno di un saggio condiviso su Substack (le cui opere Luxe e Isn’t forever sono state nominate libri dell’anno).
Un’affermazione condivisibile, perché il dolore è certamente di tutti, sarebbe disumano il contrario. E no, non serve essere genitori per provarlo, vi prego però di non ridurlo a una gara di empatia e di non ostinarci a mettere i puntini sulle i dove a mancare sono intere locuzioni.
Sento infatti di voler spezzare una lancia a favore di chi dice di soffrire questa condizione “come genitore”, credo che ciò non voglia offendere o togliere niente a nessuno, si tratta solo di un modo di percepire la questione, che non vuole di certo portare con sé discriminazione, ma esprimere un personale punto di vista.
Credo che tali parole diano voce a qualcosa che viene dalle viscere, a una sorta di inevitabile immedesimazione che si prova osservando madri e figli, come noi, in quelle atroci condizioni. Non ci dev’essere per forza un sentire giusto e uno sbagliato, e forse proprio il fatto di sottolinearlo e di definirlo offensivo può generare un ulteriore e inutile punto di separazione di cui non abbiamo alcuna necessità.
Il filo sottile che unisce le madri
Quando diventi madre, che tu lo voglia o no, un filo sottile ti lega anche a tutte le altre. Improvvisamente ti pare di comprendere i gesti e di intuire i pensieri delle altre madri. Sarà per questo che, quando ci si incrocia per strada con le carrozzine, pur non conoscendosi, tendiamo a scambiarci un timido sorriso o uno sguardo d’intesa. In qualche modo ci sentiamo legate.
Legate dall’essere genitori in generale e da quel turbinio di sentimenti e responsabilità che ci portiamo addosso. Quindi sì, da questo punto di vista mi sento legata a quelle donne come madre, non posso negarlo. Ma soffro per quei bambini come qualunque altro essere umano, senza bisogno di etichette.
Difendere gli innocenti
Così come l’avvio di una guerra è un fallimento collettivo, la difesa degli innocenti dovrebbe essere un dovere collettivo privo di barrire geografiche e culturali. Gli indifesi che muoiono in queste guerre siamo noi. Voltarsi dall’altra parte è come dare le spalle ai nostri figli, fratelli, sorelle e amici. Questo sì che è offensivo, questo sì che dovrebbe cambiare. Parlarne oggi non cambierà il mondo, ma è meglio che tacere.
Una Bionda e Una Penna
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