Cronache di morti annunciate. Potremmo definirle così, tristemente, tutte quelle notizie che coinvolgono giovani vittime le quali, a causa di un uso sconsiderato, immaturo, incosciente dei social, degli smartphone, della connessione e condivisone off limits, hanno trovato la morte.
The Borderline, i ragazzi che noleggiavano auto di prestigio, cilindrate da leoni per fare cose da pecore: volanti affidati a mani inesperte, per correre a tutta velocità, verso il nulla, se non per farsi vedere. Come in un film, quel famoso Fast & Furios, citato e scimmiottato da uno dei ragazzi indagati, ma in una strada vera, dall’autostrada ad una via di quartiere. Nei pressi di una scuola materna.
Yahya Hkimi, il ragazzo appena maggiorenne, il cui corpo è stato ritrovato in un’ansa del fiume, a seguito di un incidente causato da un video, nel quale si voleva fingere di essere portato via dall’acqua, forse, ancora una volta alla base c’era una sfida.
Questi sono solo i due episodi più recenti ma i titoli di giornali, negli ultimi anni, non hanno lesinato nel raccontarci tragedie simili. Chissà quanti sono, in realtà, i video girati per essere condivisi e “piaciuti”, dalle conseguenze nefaste e di cui non verremmo mai a sapere.
Dal revenge porn alla challenge
Qualche giorni fa, su facebook, girava una battuta che ho trovato estremamente calzante. Accanto all’immagine di un palazzo in fiamme, il testo: “In caso di incendio, prima di condividerlo sui social, ricordate di scappare”.
Questa condivisone senza senso, a caccia di commenti, fama, consenso, accettazione, da parte di chi non conosciamo, è ormai troppo pericolosa.
In modo particolare, quando è messa nelle mani di ragazzini e ragazzine dalle quali, da che mondo è mondo, legittimamente e biologicamente, non ci si può aspettare la maturità di un adulto. Persone che quindi, proprio per questo, non dovrebbero maneggiare, attraverso tastiere, pulsanti e touch screen, la vita degli altri.
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Che ci fanno dei ragazzini e delle ragazzine, che fino all’altro ieri erano bambini con uno zaino più grande di loro, accompagnati a scuola di danza o al calcetto, nella manina della mamma e del papà, con un cellulare in mano?
Filmano, per condividere, deridere, o nei casi estremi minacciare, dalla fidanzatina in reggiseno, al senza tetto picchiato per divertimento, al pestaggio di gruppo.
Vite spezzate, deflagrate, per pochi secondi di video usati per umiliare. Filmati che dicono più dell’autore che della vittima, ma che, ahimè, per uno strano modo di pensare, si vedono capovolte le vergogne, i pudori.
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Video, condivisioni, challenge: involucri del nulla
Viene da chiedersi perché non si possa usare la videocamera dei nostri cellulari, per registrare e condividere e sfidarsi facendo cose belle, utili, contagiose per solidarietà, sostegno, visioni. Perché i like con immancabili greggi di follower, sono attratti solo dalla derisione, dall’umiliazione, dallo sprezzo verso l’altro e verso il suo dolore.
È ovvia la risposta: se dai ragazzini è lecito aspettarsi immaturità, dall’altro, è colpevole ed incomprensibile quella degli adulti. Coloro che dovrebbe aiutare i figli (non solo i propri, ma intesi come quelli dell’intera società) ad uscire da quella distinzione troppo nebulosa tra il bene ed il male, fra azione e conseguenza, tra scherzo e reato.
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Cronache di morti annunciate, dicevamo. Sì, perché ormai non possiamo più far finta di non sapere cosa fanno i nostri figli con uno smartphone perennemente in mano.
Non possiamo far finta di non sapere che non sia uno strumento adatto a loro. Non possiamo far finta di non sapere come esista una vera e propria dipendenza dai social, pari a quella delle sostanza stupefacenti. Ora, a differenza di una piccolissima manciata di anni fa, sappiamo tutto.
Ora, sappiamo che ci sono un sacco di profili fake, di pedofili, nascosti dietro account accoglienti, teneri, affidabili con i quali potrebbero chattare i nostri figli, a nostra e a loro insaputa.
Ora, sappiamo che il mondo on line è la famosa strada trafficata che attraverseremmo mano nella mano con i nostri bambini, temendo possano essere investiti, e lì, invece, li facciamo schiacciare, morire, come vittime e come carnefici, da soli.
Ora, non possiamo far finta di relativizzare tutto perché tanto “a mio figlio, non succederà mai”.
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Cronache di morti annunciate. Potremmo definirle così, tristemente, tutte quelle notizie che si susseguono settimane dopo settimane, mesi dopo mesi, anni dopo anni. Sì. Morti delle quali, in parte, siamo tutti responsabili.
Responsabili perché nostro è il compito di vigilare.
Responsabili perché nostra è la colpa del contesto nel quale li facciamo vivere.
Responsabili perché lo sapevamo che poteva succedere, ed abbiamo accettato il rischio, perché tanto “a mio figlio, non succederà mai”.
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