Qualche giorno fa mio figlio di sei anni mi ha chiesto se nella vita contasse più l’amore o la speranza perché, mi ha detto, secondo lui conta di più la speranza perché significa che hai “delle possibilità“. Ora, al di là del fatto che sto ancora indagando sull’origine di questa domanda e sul significato della risposta che lui si è dato, mi sono messa a pensare.
Ho pensato che effettivamente io la penso come lui, che per me, per la mia vita, la cosa più importante è avere una possibilità.
Per me la cosa più importante è avere una possibilità.
O crearsela. Avere la speranza, avere qualcosa in cui sperare, un obiettivo da raggiungere, una sogno da realizzare. Questa è la mia vita e la mia verità.
A mio figlio, però, ho risposto che non era come pensava lui, che le possibilità e le speranze sono più belle e più forti se si ha qualcuno a cui si vuole bene e che ci vuole bene. E l’ho fatto perché a me nessuno lo ha mai detto, perché pensavo fosse giusto.
Anche se non ci credo.
Anche se non è la mia verità.
E mi sono chiesta se sia giusto? Giusto dire delle cose, dare delle spiegazioni, mostrare il mondo più roseo di come è in realtà, o di come lo vediamo noi? Fino a che punto i nostri figli devono essere tenuti al riparo da quello che realmente sentiamo?
Ho sempre pensato che avrei cresciuto mio figlio con sincerità
Ma mi chiedo se ci sia un limite, un confine più o meno sottile, tra verità e mancanza di rispetto di quell’epoca beata che dovrebbe essere l’infanzia.
Mi barcameno perché una risposta non ce l’ho. Improvviso. Tento. Proprio come in tutte le altre cose “da genitore”.
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