Tornano di grande attualità le problematiche delle mamme in carriera, costrette tra gravidanza, figli e permessi a dover subire ritorsioni dai datori di lavoro.
Maternità e lavoro, il caso di Chiara
Nonostante corra l’anno 2019, gli ostacoli sul posto di lavoro delle donne che decidono di mettere su una famiglia tornano alla ribalta sui giornali.
Si tratta di Chiara, dipendente di una piccola azienda nel milanese. È proprio lei a raccontare, nella sede regionale della Cgil, di quanto è stata costretta a sopportare dopo la nascita del secondo figlio.
Dipendente da 15 anni di un’azienda del milanese, al momento della nascita del primo bambino non aveva avuto nessun tipo di problema : i permessi e il trattamento generale avevano perfettamente rispettato quanto previsto dalla legge. Ma in seguito alla nascita del secondo, circa un anno fa, le fanno una proposta di buonuscita da un consulente del titolare. L’hanno invitata a non rientrare al lavoro, anche minacciando una situazione spiacevole a cui sarebbe andata incontro se avesse deciso di continuare a mantenere il suo impiego. Una frase su tutte: “Ti faranno morire”.
Sebbene il consiglio sembrava provenire da una persona che parlava nel suo interesse, Chiara ha deciso di non arrendersi e di dare voce al suo problema, comune purtroppo ancora a tante donne costrette a scegliere tra famiglia e lavoro.
Le battaglie delle mamme lavoratrici
Chiara ha imputato il cambio drastico di atteggiamento nei confronti delle lavoratrici al cambio dei vertici dell’azienda familiare : il nuovo capo le manifesta fin dall’inizio della gravidanza il suo disappunto in merito, cercando anche cavilli amministrativi per coglierla in fallo.
Ma non finisce qui, durante la sua assenza per il periodo di maternità l’azienda assume a tempo indeterminato una persona per sostituirla e, al momento del suo rientro, le propongono di dimettersi dietro incentivo all’esodo, per evitare il crearsi di situazioni spiacevoli. Convinta di non aver fatto nulla di male per perdere il lavoro, Chiara si trova riposizionata in un altro ruolo, mai svolto prima, e si vede costretta a passare da responsabile di reparto a semplice dipendente, relegata a fare fotocopie, triturare carta, archiviare fascicoli e rispondere al citofono. Non viene più coinvolta nelle riunioni e nelle decisione e viene totalmente emarginata da dirigenza e colleghi.
I dati della Cgil
Quello di Chiara non è un caso isolato. I numeri della Cgil parlano di 27 mila pratiche riferite al 2018 e ben 14 mila nei soli primi sei mesi di quest’anno. In termini monetari, solo nella regione Lombardia, sono oltre 54 i milioni di euro recuperati dall’ufficio vertenze per i crediti che altrimenti sarebbero rimasti nelle casse delle aziende o dell’Inps se i vari lavoratori non si fossero rivolti al Sindacato.
Ad oggi sono più di 5 mila i contenziosi aperti per recuperare stipendi parzialmente o mai pagati dai datori di lavoro, 2.757 le violazioni contrattuali che includono 1.623 licenziamenti illegittimi. E a questi numeri, già preoccupanti, bisogna aggiungere tutti i casi di dimissione estorte con scuse e minacce che altrimenti renderebbero frustrante ed umiliante la permanenza al lavoro.
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