Perché non riusciamo a perdonare la lentezza dei bambini? E la domanda, in primis, la rivolgo a me stessa.
Perché non riusciamo a capire che in quella lentezza, nel loro crogiolarsi e non comprendere il significato di ritardi e scadenze, c’è la vera essenza dell’essere bambini?
Perché non riusciamo a capire che per essere adulti avranno tutto il tempo, quando sarà il momento?
Io corro, devo correre, è un’esigenza. Un’imposizione, ma anche una mia precisa volontà. Per molto tempo ho pensato fosse la mia unica possibilità, ma poi ho capito che in realtà era solo una scelta.
Come è stata una scelta quella di lavorare fino al nono mese di gravidanza e di ricominciare a farlo quando Pietro aveva appena tre mesi.
Di dedicarmi anima e corpo al lavoro, di avere lo sguardo, i pensieri, sempre rivolti altrove.
Il mio modo di essere madre, che a volte ho creduto fosse l’unico possibile per me, è stato una scelta. La più semplice o la più complessa, non l’ho ancora capito; di certo quella più simile al mio modello educativo, quello secondo il quale sono stata cresciuta.
Mi sono sempre detta che mio figlio era un bambino e in quanto tale la sua vita poteva adattarsi alla mia, senza capire. Senza comprendere l’enorme privilegio di vivere accanto ad un bambino, di avere la possibilità di farmi contaminare dalla sua lentezza, dal suo stupore. Dalla meraviglia.
Dal fatto che, lui lo sa ed è riuscito ad insegnarmelo, il fatto di non aver tempo è solo e sempre una scusa, perché il tempo si trova sempre.
A lungo non sono riuscita a perdonare la lentezza di mio figlio, non capendo che enorme risorsa fosse.
Pretendendo che mio figlio capisse scelte che invece non deve comprendere, non ora almeno, e rifiutando di bearmi dei suoi insegnamenti.
Poi ho capito. Che la sua lentezza altro non era che la risposta a (quasi) tutte le domande che avevo come madre perché per provare ad essere un buon genitore bisogna tornare (un po’) bambini.
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