Una recente ricerca condotta da Save the Children ha messo in evidenza un dato drammatico relativo allo sfruttamento del lavoro minorile nel nostro paese. Sarebbero circa 366mila i minori tra i 7 e i 15 anni che lavorano in Italia.
L’indagine ha riacceso un dibattito in verità mai completamente esaurito, che coinvolge le istituzioni e richiede, con urgenza, pratiche concrete e risolutive.
Lavoro minorile in Italia: rimandi normativi
Il lavoro minorile, in Italia, è stato abolito nel 1967, con la Legge 977. Tuttavia, l’iter ha richiesto regolamentazioni e direttive successive che hanno, nel tempo, cercato di limitare la diffusione del fenomeno.
La disciplina interessa gli stessi fondamenti della Costituzione, trovando esplicita attuazione negli articoli 34 e 37. Il lavoro minorile viene definito come rapporto, retribuito o meno, intrapreso con un soggetto che non abbia compiuto la maggiore età.
Viene quindi fatta una differenziazione tra lavoro infantile e lavoro adolescente (ovvero di minori che abbiano portato a termine gli anni di obbligo scolastico); mentre a, livello normativo, i rapporti di lavoro con datori esterni al nucleo familiare (retribuiti) vengono equiparati a quelli di collaborazione domestica o familiare.
Dal 2007, la legge italiana ha previsto l’innalzamento dell’obbligo scolastico dai 15 ai 16 anni: ciò implica che, oggi, nel nostro paese, fino al compimento del 16° anno di età, il lavoratore debba essere tutelato dalla disciplina speciale che regolamenta il lavoro infantile.
In particolar modo, la legislazione italiana pone l’accento sulla priorità dell’istruzione rispetto lavoro: sono ammesse forme di lavoro minorile, ma, per nessuna ragione, esse devono ledere il diritto all’istruzione e alla formazione.
Forme e requisiti di ammissibilità del lavoro minorile in Italia
Nel nostro Paese, dunque, il lavoro minorile non è vietato in assoluto: sono previste deroghe ed eccezioni che riguardano determinate tipologie professionali, quali, ad esempio, le attività artistico-culturali, sportive e pubblicitarie.
Di contro, sono ammessi al lavoro gli adolescenti tra i 16 e 18 anni, ma con limitazioni temporali, di turni e mansioni.
Senza volersi addentrare oltre, all’interno di una materia tanto ostica, è fondamentale riflettere su uno dei capisaldi più espliciti della normativa nazionale: in Italia, il lavoro minorile è ammesso a determinate condizioni, a patto che non metta a repentaglio la salute, il benessere e la dignità del minore e gli permetta di accedere agevolmente all’istruzione scolastica.
Il lavoro, in altre parole, deve garantire il benessere psico-fisico e mantenersi entro i limiti della rispettabilità e della legalità, senza ostacolare o ledere il diritto allo studio.
Indagini statistiche sul lavoro minorile
La ricerca condotta da Save the Children rappresenta l’ennesimo tentativo di concretizzare e quantificare un fenomeno che dilaga da tempo.
La difficoltà delle indagini risiede nell’indefinibilità intrinseca del fenomeno: data la sua stessa natura, spesso al limite della legalità, è pressoché utopico pensare di ottenere quadri precisi. Infatti l’ultima stima, di 366mila minori lavoratori, è un dato approssimativo.
La rilevazione dei dati accerterà sempre soltanto un parte del problema: sarà, perciò, necessario tenere presente la presenza di una realtà secondaria, sommersa e taciuta, allo scopo di limitare i danni sui giovani e giovanissimi, sfruttati per inesperienza o disagio sociale.
I settori interessati dal lavoro minorile
I settori maggiormente coinvolti dal fenomeno sono quelli di sempre: ristorazione, commercio, attività agricole, cantieri edili e collaborazioni domestiche. A questi, però, oggi, si aggiungono altre forme di lavoro connesse al mondo digitale: content writer, re-seller e videoplayer.
Il lavoro minorile, infatti, si è adeguato e modificato nel tempo.
Nuove soglie di povertà e lavoro minorile
Il peggioramento generalizzato delle condizioni economiche di gran parte della popolazione ha determinato un forte incremento del fenomeno: i giovani dichiarano di approcciarsi al lavoro per questioni economiche personali (56,3%), per aiutare economicamente la famiglia (32,6%), ma anche “per piacere” (38,5%).
Il divario economico, nella maggior parte dei casi, risulta connesso anche al livello di istruzione dei genitori: questo aspetto richiede una nuova mappatura del fenomeno, meno contestualizzata e più sociologica.
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